il Mattino: Da Reggia a Tribunale, il Castello delle voci che arrivano dal passato
Tratto da il Mattino di domenica 23 Febbraio 2020
Da Reggia a Tribunale, il Castello delle voci che arrivano dal passato
di Vittorio Del Tufo
«Meglio sarebbe non aver vissuto che non lasciare tracce della propria esistenza» (Napoleone Bonaparte).
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Quando gli uomini smettono di considerarli vivi, i monumenti diventano città sepolte, pietre in rovina, o tutt’al più depositi di vecchie carte. C’è un monumento, nel cuore della città, che ha rischiato di finire nella fossa comune della memoria: Castelcapuano. Per molti, il destino del secondo più antico castello di Napoli (dopo Castel dell’Ovo) era segnato dopo il trasferimento dei Tribunali al Centro Direzionale. L’Uovo di Virgilio vuole ricordare, e celebrare, gli uomini e le donne che hanno lavorato e continuano a lavorare per sottrarre l’antico maniero – a lungo culla di magistrati e giuristi che hanno dato a Napoli il primato del Diritto su tutte le altre regioni d’Italia, e forse del mondo civile – a un destino di rovina e di oblìo. Partendo da una data: il 15 giugno 2011, quando è stata costituita la Fondazione Castelcapuano grazie all’impegno di un magistrato tenace, Antonio Buonajuto, presidente della Corte di Appello, di Floretta Rolleri, direttore generale per la gestione e la manutenzione degli edifici giudiziari di Napoli, dell’avvocato Mario Ruberto e di Francesco Caia, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli.
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«I monumenti crollano il dì che i vivi ne escono», scriveva alla fine dell’800 il procuratore generale presso la corte di Cassazione di Napoli Vincenzo Calenda, opponendosi all’abbandono di Castecapuano da parte degli uffici giudiziari. Con analoga determinazione, in tempi più recenti, la Fondazione Castelcapuano, che opera senza oneri per lo Stato, ha lavorato perché l’antico monumento mantenesse funzioni di giustizia, e non si disperdessero le sue gloriose, e spesso tragiche, memorie.
Fondato nel XII secolo a ridosso delle mura delle città, come avamposto di difesa da terra e in posizione strategica, Castelcapuano diventò residenza reale quando, appena conquistata Napoli, nel 1266 Carlo d’Angiò vi andò ad abitare in attesa che venisse costruita la sua nuova residenza di Castel Nuovo, più a occidente. Nel periodo aragonese (XV secolo) i nuovi regnanti scelsero di rinnovare i due castelli trasformandoli nei poli principali della vita cerimoniale e politica napoletana. Con il colto e raffinato Alfonso II, figlio di re Ferrante, il castello fu inglobato definitivamente all’interno della nuova cinta muraria e divenne una residenza principesca, nonché il fulcro di un sistema residenziale che comprendeva altri giardini di delizie – le celebri delizie alfonsine – come la Duchesca e il Poggio Reale, che avrebbero dato il nome a due zone della città.
Con l’annessione del Regno di Napoli alla corona di Spagna e l’avvento del Vicereame (1503) per Castelcapuano si aprì una nuova pagina. Cominciava l’era di don Pedro Álvarez de Toledo, al quale si deve la decisione di riunire tutte le corti di giustizia sparse in varie zone della città: così, nel 1536, Castelcapuano diventa la sede dei Tribunali di Napoli. Inizia una storia che durerà cinque secoli; ai tempi dei Borbone Castelcapuano fu sede della Gran Corte Criminale, dove furono processati i rivoluzionari che parteciparono alla rivolta contro Ferdinando II nel 1848.
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Che Castelcapuano sia un teatro della memoria viva appare chiaro a tutti coloro che varcano la soglia dello splendido Salone dei Busti, al secondo piano, dove un tempo si tenevano le udienze pubbliche della Camera della Sommaria. La sala – che in questi mesi sta tornando agli antichi splendori grazie al lavoro della cooperativa Archeologia di Firenze – ospita i busti in marmo degli avvocati che hanno dato lustro al Foro napoletano. «Un’intera classe intellettuale divinata, in vita o post-mortem, attraverso il busto scultoreo, l’opera d’arte per eccellenza», scrive Isabella Valente in Castelcapuano da Reggia a Tribunale (a cura di Fabio Mangone). I busti sono in totale quarantuno, tra antichi e moderni, collocati su mensole a parete o alloggiati su basamenti a colonne movibili. Ad accompagnarci in questo meraviglioso viaggio della memoria è Antonio Buonajuto, già presidente della Corte d’Appello di Napoli e sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione fino al 2001, un «custode del passato» che interpreta alla lettera il mantra di Bonaparte: meglio sarebbe non aver vissuto che non lasciare tracce della propria esistenza. Il suo sguardo accarezza i grandi del passato. Il primo busto a essere eretto fu quello del giureconsulto Roberto Savarese, poi fu la volta di tutti gli altri. E allora ecco Mario Pagano, giurista, filosofo e personaggio di spicco della Repubblica Partenopea del 1799. Ecco Nicola Nicolini, Domenico Capitelli, Giuseppe Pisanelli; ecco Francesco Saverio Correra, il giurista e politico a cui è dedicata, a Napoli, la strada conosciuta come «il Cavone di piazza Dante». Ed ecco gli ultimi grandi oratori: Porzio, De Nicola – primo presidente della Repubblica e primo presidente della Corte Costituzionale – e Alfredo De Marsico, che fu tra i firmatari dell’ordine del giorno di Dino Grandi che portò alla caduta di Mussolini il 25 luglio del 43.
Ombre. Memorie di vite che non passarono invano. Figure illustri che ci parlano dal passato. Enrico Pessina, scomparso nel 1916, fu molto amato dalla classe giuridica napoletana. Liberale, si oppose ai Borbone partecipando ai moti del 48, e un anno dopo diede alle stampe un manuale di diritto costituzionale che gli procurò la persecuzione della polizia e poi il carcere. Nel febbraio del 26, quasi cento anni fa, si tenne in questo luogo una toccante cerimonia, con l’inaugurazione del trittico di busti dedicato agli avvocati Nicola Amore, Emanuele Gianturco e Gaetano Manfredi. Gianturco, il giurista, rappresentava la disciplina del diritto; Nicola Amore, l’avvocato, la possanza e il magistero della dialettica; Gaetano Manfredi, l’oratore, il fascino e l’arte della parola. L’uno ammaestrava, l’altro avvinceva, il terzo soggiogava. Gaetano Manfredi era considerato un esteta dell’eloquio. Il pubblico accorreva alle sue arringhe come a una festa, come si accorre a un concerto di un cantante celebrato. Tra le sue cause è rimasta celebre quella in difesa dello scultore Filippo Cifariello, accusato di uxoricidio per aver ucciso nel 1905 in una camera della pensione Mascotte, a Posillipo, la moglie Maria Francesca de Browne, cantante di varietà, nota con il nome di Blanche de Mercy.
Tra i busti anche quello di Giovanni Leone, ex presidente della Repubblica, e del grande penalista Francesco Saverio Siniscalchi, padre di Vincenzo. A partire dalla porta d’ingresso si succedono le dodici allegorie, personificate da figure femminili, che raffigurano le dodici Province del Regno di Napoli. La Campania ha il capo adorno da una corona di fiori e da fasci di grano, tralci di uva e frutta e ai cui piedi è visibile sul suo scudo sono le cornucopie, simbolo dell’abbondanza.
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La storica Biblioteca di Castelcapuano è intitolata ad Alfredo De Marsico. È un luogo storico della cultura giuridica; un patrimonio librario ultrasecolare, dunque dallo straordinario valore antiquario, ma anche un luogo di scambio generazionale tra gli avvocati e i magistrati di ieri e quelli di oggi. Fu inaugurata il 19 luglio 1896 e trasferita, nel 1936, nella grande sala dove si svolgevano le riunioni del Gran Consiglio ai tempi della regina Giovanna I e poi della Gran Corte Criminale, dove furono celebrati i processi del 1848 e venne condannato a morte nel 1857 Luigi Settembrini. La sala che oggi ospita la biblioteca fu sede del Gran Consiglio durante il regno degli Angioini, poi sala di udienza della Gran Corte Criminale nel periodo borbonico. Qui furono processati anche i patrioti che parteciparono alla rivoluzione del 1848 contro Ferdinando II. La Biblioteca fu inaugurata il 19 luglio 1896 ed ospita circa 80mila volumi tra cui rarissime opere dei secoli XVI, XVII e XVIII che costituiscono il cosiddetto Fondo Antico. Il patrimonio custodito in questa sala esprime il vincolo intellettuale che da sempre anima il rapporto tra magistrati e avvocati. Un altare di carta che fa da collante alla memoria collettiva di un popolo.