Situato al limite orientale del decumano maggiore (odierna via Tribunali) Castel Capuano fu costruito da Guglielmo I detto il Malo, figlio di Ruggiero il Normanno, verso il 1150, su un preesistente fortilizio di età bizantina, in posizione strategica, a cavallo della cinta muraria, a difesa di Porta Capuana (da cui derivò il nome). Edificato come fortezza fu poi ristrutturato da Federico II di Svevia verso il 1240, e adattato a dimora regia per i periodi in cui il Sovrano da Palermo veniva a Napoli. Con l’avvento della dinastia angioina, nel 1266, Napoli diventò capitale del regno e città europea e Carlo I avviò la costruzione di Castel Nuovo, che diventò dimora reale preferita a Castel Capuano, che restò residenza saltuaria di principi e reggimenti reali. Durante il regno di Giovanna II, il Castello fu testimone dell’efferato assassinio di Ser Gianni Caracciolo, gran siniscalco e favorito della regina. Con gli Aragonesi Castel Capuano fu inglobato entro la nuova cinta muraria della città, perdendo completamente il suo carattere militare per diventare dimora stabile di Alfonso, Duca di Calabria, e vivere il suo periodo di massimo splendore. Donato da Carlo V al Lannoy, principe di Sulmona, il Castello, dopo pochi anni fu espropriato dal vicerè Pedro de Toledo che, fattivi eseguire i necessari lavori di adeguamento, vi trasferì, intorno al 1540 tutte le Corti di Giustizia, civili e criminali, che erano disseminate per la Città. Con il nome di “Tribunale della Vicaria”. Castel Capuano fu attrezzato anche a carcere. Sottoposto nei secoli a ripetute modifiche sia all’interno che all’esterno, l’edificio ebbe un radicale restauro ad opera dell’architetto G. Riegler, tra il 1858 e il 1861. Dopo il 1861 la parte adibita a carcere fu chiusa e il Castello restò soltanto per la funzione di Tribunale che conserva tuttora. Sull’ingresso è visibile lo stemma di Carlo V con l’a quila ad ali spiegate, tra le insegne della casa di Spagna, ritenuto opera di Miciato D’Amato e Francesco Sangallo. Sotto c’è l’epigrafe che cita la destinazione a Palazzo di Giustizia voluta dal Toledo. ***
OPERE D’ARTE NELLE SALE DELLA CORTE D’APPELLO
DI CASTEL CAPUANO
Castel Capuano Nove secoli di storia
(Clelia Abate, Daniela Castaldi)
Il castello, uno dei più antichi della città di Napoli, fu fondato secondo la tradizione dal re di Sicilia Guglielmo I il Malo (1120-1166), figlio di Ruggero il Normanno, e ultimato nel 1154, ma con ogni probabilità già in epoca greco-romana doveva esistere una struttura fortificata nei pressi della porta a quel tempo già detta “Capuana”. Collocato extra moenia in un punto nevralgico di controllo delle comunicazioni con l’entroterra, Castel Capuano assolveva – essenzialmente – a ruolo di difesa, anche se intorno al 1220, Federico II di Svevia volle adattarlo a sua dimora ampliandolo, mantenendone comunque inalterate le originarie caratteristiche di fortezza. Con l’a vvento degli Angioini, il castello fu ulteriormente ingrandito, tuttavia i nuovi sovrani non lo scelsero come loro unica dimora e avviarono nel 1279 la costruzione di Castel Nuovo.
Castel Capuano, ormai non più sede reale, ospitò principi, alti dignitari, personaggi illustri – come ad esempio Francesco Petrarca – e divenne luogo deputato a feste e celebrazioni importanti come il matrimonio di Carlo III di Durazzo. Il castello fu molto amato dalla regina Giovanna I d’A ngiò che si circondò di una splendida corte e vi istituì un’Accademia detta Giuochi floreali.
Con la dinastia aragonese, Castel Capuano perse definitivamente il suo carattere militare e continuò ad essere esclusivamente luogo di fasti. Alfonso d’Aragona, divenuto re, volle che le sale del castello fossero abbellite con affreschi commissionati al suo pittore di corte il valenzano Jacomart Baço. Verso la fine del XV secolo, Ferdinando I d’Aragona (1431 ca.-1494) commissionò al fiorentino Giuliano da Majano l’ampliamento delle mura della città inglobandovi anche il castello; fu elevata anche la nuova porta Capuana rivestita dalla elegante decorazione marmorea concepita dallo stesso architetto e completata dallo scultore Giovanni da Nola.
Nel 1535 vi dimorò, seppur per un breve periodo, Carlo V, il quale donò il castello al principe di Sulmona Filippo Lannoy. Nel 1537 il castello fu espropriato dal viceré spagnolo don Pedro de Toledo – il cui stemma campeggia nell’angolo della facciata Nord-Est del castello – che affidò a Ferdinando Manlio i lavori di adattamento del castello a sede dei Tribunali, in cui furono riunite la Gran Corte della Vicaria, divisa in quattro ruote, due civili e due criminali; il Sacro Regio Consiglio che esaminava le principali cause civili del Regno ed in ultimo appello le sentenze civili e criminali; la Regia Camera della Sommaria, che aveva competenza finanziaria e fiscale; il Tribunale della Zecca, addetto all’emanazione del bollo delle unità di misura; il Tribunale della Bagliva, che trattava le cause dei danni di minor rilievo. I sotterranei del castello furono adibiti a prigioni.
All’inizio del XVIII secolo, durante la congiura di Macchia, il castello fu assediato e devastato dal popolo, e così iniziò un periodo di decadenza per l’edificio. Sarà Carlo di Borbone a provvedere alla sua ristrutturazione. I successivi interventi di restauro, culminati con quello eseguito dall’architetto Giovanni Riegler dal 1858 al 1861, se da una parte hanno contribuito a portare alla luce antichi resti di epoca greco-romana, dall’altro hanno alterato l’o riginario aspetto del castello. (C.A.)
Tuttavia ancora oggi nel castello è possibile leggere l’e voluzione storico-artistica che lo ha visto protagonista nei secoli. Emblematica in tal senso è la famosa Sala dei Busti, al secondo piano di Castel Capuano, che trae tale appellativo dalla presenza di una serie di sculture in marmo a mezzo busto, collocate lungo l’intero perimetro della sala, che celebrano i principali avvocati del foro napoletano. L’ampio salone fu decorato su tre lati intorno al 1770 con affreschi di Antonio Cacciapuoti (attivo dal 1747 al 1770) raffiguranti le Personificazioni delle dodici Province del Regno di Napoli entro Architetture prospettiche opera di Francesco De Ritis e Vincenzo Bruno detto l’Abate. A partire dalla porta d’ingresso si succedono le dodici allegorie personificate da figure femminili,le quali sono rappresentate con simboli di ciascuna provincia e ognuna con il nome di riferimento (es. la Campania ha il capo adorno da una corona di fiori e da fasci di grano, tralci di uva e frutta e ai cui piedi è visibile sul suo scudo sono le cornucopie, simbolo dell’abbondanza). Tali Allegorie si stagliano in una monumentale architettura prospettica costituita da colonne di ordine composito intramezzate da finte finestre strombate con festoni, cartocci e piedistalli. Le prospettive architettoniche continuano negli affreschi ottocenteschi risalenti al restauro del Rigler, dove in una balaustra dipinta da Ignazio Perricci (1834-19??) è l’Allegoria della Giustizia che trionfa sui Vizi opera di Biagio Molinaro (1825-1868). Dal Salone dei Busti si accede alla Cappella della Sommaria, che è uno dei pochi luoghi rimasti integri nell’e dificio di estrema ricchezza decorativa. La cappella, destinata a luogo di preghiera dei Presidenti della Sommaria prima di decidere sulle condanne da applicare ai sudditi, fu interamente decorata alla metà del Cinquecento da stucchi di raffinati artisti e da affreschi con Storie di Cristo e il Giudizio Universale realizzati da Pedro Rubiales detto Roviale Spagnolo[figg.1,2,3]. Quasi per una sorta di horror vacui, il Roviale tese a riempire tutti gli spazi restanti vuoti della volta con figure di Virtù e grottesche. In epoca imprecisata gli affreschi furono ricoperti con calce e pertanto non furono citati dagli autori delle guide napoletane tra XVII e XIX secolo. La riscoperta di questo straordinario ciclo avvenne verso 1860, quando l’intero castello fu oggetto di un più ampio restauro. Sono ancora da segnalare le volte di due sale del tribunale civile dipinte da Belisario Corenzio [fig.4],che meritano un attento recupero. Nella prima sala è Il giudizio di Salomone nel riquadro centrale della volta a padiglione, mentre nei pennacchi e nelle lunette sottostanti sono dipinte, entro grottesche, cinque allegorie di Virtù e vari stemmi tra i quali quello della casa di Spagna. Due pilastri mettono in comunicazione questa sala con la seconda, che presenta decorazioni molto simili. Nel riquadro centrale della volta a padiglione è la scena del Giudizio di Davide, mentre nei cinque pennacchi sono raffigurate altrettante Virtù entro riquadrature con finti fondali a mosaici dorati. Da questa sala si accede alla splendida biblioteca di Castel Capuano intitolata ad Alfredo De Marsico; nell’attiguo salone sono custoditi preziosi incunaboli.(D.C.)
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Opere d’arte nelle Sale della Corte d’Appello di Castel Capuano
(Ida Maietta)
I Saloni della Corte d’Appello in Castel Capuano, ospitano in sottoconsegna temporanea sedici dipinti provenienti da chiese napoletane chiuse al culto da tempo. Con questa iniziativa, promossa dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali Paesaggistici e del Patrimonio Storico Artistico e Demoetnoantropologico, viene resa possibile la fruizione di opere da oltre vent’anni custodite in deposito, recuperate e presentate al pubblico dopo un intervento di restauro conservativo. Il nucleo più consistente dei dipinti esposti proviene dalla chiesa di San Giovanni Battista delle Monache, adiacente all’Accademia di Belle Arti, il cui solenne impianto interno fu condotto tra il 1673 e il 1684 su disegno di Francesco Antonio Picchiatti (1619 –1694 ), mentre l’o riginale facciata porticata fu realizzata nel 1735 da Giovan Battista Nauclerio (1705- 1737). L’e dificio presentava dissesti statici sin dall’Ottocento, causati dall’apertura di via Conte di Ruvo nel 1864, che determinò il distacco della chiesa dal monastero destinato a sede dell’A ccademia di Belle Arti. In occasione dei lavori di consolidamento della cripta tra il 1969 e il 1974 tutte le opere d’arte mobili vennero trasferite nei depositi della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici salvandosi così dal crollo improvviso del 4 dicembre 1982, che causò la distruzione della cupola del tamburo e dei quattro arconi di sostegno; successivamente fu ripristinata nella chiesa una copertura provvisoria a cura del Provveditorato alle Opere Pubbliche; attualmente è in corso a cura della Soprintendenza per i BAP e per il PSAD il complesso intervento di ricostruzione della Cupola. Un altro gruppo di dipinti proviene dalla chiesa della Disciplina della Croce, attigua a S. Agostino della Zecca, sede di una delle più antiche congreghe di Napoli , quella dei Battenti della Disciplina della Croce, la cui istituzione risale ad un periodo compreso tra il 1290 e il 1321.
L’antico edificio,decorato da notevoli stucchi settecenteschi di Domenico Antonio Vaccaro, in attesa di un radicale intervento di recupero, ha subito in passato ripetuti furti che ne hanno messo a rischio il patrimonio d’arte mobile. A seguito di spoliazioni avvenute negli anni ’70 i dipinti dell’Arciconfraternita sono stati trasferiti nei depositi della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici.
Lo stato di conservazione dei dipinti e l’intervento conservativo
Lo stato di conservazione delle opere di queste chiese, che trovano oggi collocazione negli ambienti della Corte d’Appello, era in larga parte compromesso da una prolungata mancanza di manutenzione e per alcuni dipinti, da antichi interventi di restauro condotti in modo improprio, quali ad esempio interventi di rifodero eseguiti a colla forte per le tele dell’A nnunciazione e della Fuga in Egitto che avevano notevolmente danneggiato i supporti originali, la preparazione e il colore. I dipinti presentavano una omogenea tipologia di degrado, caratterizzata dall’a llentamento delle tele dai telai di sostegno. La trama delle tele, sfibrata e sgranata, aveva subito un notevole stress causato dagli sbalzi climatici degli ambienti in cui le opere erano state custodite, che avevano anche determinato un forte inaridimento della pellicola pittorica che si presentava inaridita e sollevata in scaglie. Inoltre il cromatismo della pellicola pittorica risultava fortemente alterato dalla stesura sulle superficie di vernici quali coppali e gomma lacca che per loro natura si ossidano alla luce provocando un generale ingiallimento. Lo stato di conservazione dei dipinti era così precario che qualsiasi spostamento avrebbe inevitabilmente determinato cadute di colore e di preparazione; è stato pertanto indispensabile attuare un intervento di restauro conservativo, per consentire il recupero di una materia toppo a lungo mortificata.
Per tutti i dipinti si è proceduto al consolidamento della pellicola pittorica e ad una pulitura calibrata, che ha comportato l’asportazione degli strati delle vecchie vernici ossidate e ingiallite e l’eliminazione parziale dei ritocchi .In relazione alle caratteristiche di questo intervento, che non ha contemplato le fasi della stuccatura e dell’integrazione pittorica, limitandosi alle operazioni specificamente conservative, i vecchi ritocchi non sono stati eliminati, ma risparmiati, alleggerendoli laddove necessario.
Nove dipinti sono stati foderati, e sono state eliminate, laddove presenti, le tele applicate nei vecchi rifoderi; si è proceduto poi al consolidamento degli strati preparatori al supporto con una graduale impregnazione di colle animali e alla applicazione con colla di pasta di una tela medio-leggera alla tela originaria così risanata. I dipinti rifoderati sono stati fissati su nuovi telai estensibili in legno di abete stagionato. Anche le cornici sono state recuperate; è stato consolidato con resine acriliche il legno debilitato dagli attacchi dei tarli; sono state pulite le lamine d’oro zecchino o d’argento meccato, nonché stuccate e integrate, laddove erano evidenti lacune. Si è portato così a termine un intervento conservativo che ha permesso di recuperare la leggibilità di una serie di opere segnate dal tempo e dall’u omo.
La disposizione delle opere nelle Sale della Corte di Appello Seguiamo ora la disposizione dei dipinti recuperati nelle nei vasti ambienti della Corte d’A ppello, dove queste opere, dalle notevoli dimensioni, ritrovano spazio e ritornano alla fruizione. Nella prima anticamera sono tre dipinti dedicati al tema della Passione di Cristo.
Campeggia sulla parete destra la grande tela raffigurante il Calvario, del pittore napoletano Orazio Frezza, proveniente dalla sacrestia della chiesa di San Giovanni Battista delle Monache. L’o pera caratterizzata da un’intensa drammaticità, è tra le più interessanti di questo pittore che svolse la sua attività tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo e fu allievo del piemontese napoletanizzato Giovan Battista Beinaschi, col quale collaborò intorno al 1681 alla decorazione ad affresco dell’intera chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, dall’abside alla controfacciata. Si devono al Frezza che, come ricorda il De Dominici ebbe vita breve, anche alcune tele sempre per Santa Maria delle Grazie e gli affreschi in due cappelle laterali della chiesa di Regina Coeli. In questo dipinto, caratterizzato da un impianto solenne e da morbidi panneggi, il pittore si ricollega ai modi del grande emiliano Giovanni Lanfranco, di cui aveva assimilato la lezione attraverso l’insegnamento del Beinaschi.
Ai lati della tela del Calvario sono collocati due tele ottagonali di ignoto pittore napoletano della prima metà del XVIII secolo raffiguranti Angeli reggenti i simboli della Passione di Cristo, provenienti dalla chiesa della SS. Disciplina della Croce. I due ottagoni fanno parte di una serie costituita da quattro dipinti, un tempo alle pareti laterali della chiesa, e i due restanti anch’e ssi restaurati, sono attualmente presso l’Istituto internazionale di Studi giuridici della Facoltà di Giurisprudenza
Nella sala successiva, dedicata al tema della Sacra Famiglia, si trovano dipinti provenienti dalla chiesa di San Giovanni Battista delle Monache. Sulla parete frontale a sinistra è la tela raffigurante l’Annunciazione, attribuita a Giuseppe Marullo, databile al 1640 circa. In quest’o pera, della fase iniziale della sua attività, il pittore, nato attorno al primo decennio del secolo e morto nel 1685, replica fedelmente l’Annunciazione per la chiesa napoletana di San Gregorio Armeno, di Pacecco de Rosa, che fu uno dei suoi principali punti di riferimento. L’intera produzione di Marullo, caratterizzata da una vena sentimentale e manierata, fu infatti fortemente influenzata dal filone classicistico di cui Pacecco e Stanzione con modulazioni diverse, furono i più importanti esponenti nell’ambiente pittorico napoletano di metà Seicento. Sulla stessa parete, a destra, è la Fuga in Egitto, opera di un pittore napoletano della prima metà del XVII secolo che declina lo stile di Stanzione e di Pacecco con una seducente grazia sentimentale. Segue, sulla parete laterale destra, la tela raffigurante Il Battista, anch’essa attribuita al Marullo. In questo dipinto il precursore, con l’indice destro proteso, sembra voler indicare in una ideale continuità la tela che occupa il lato destro della parete d’ingresso raffigurante Sant’Anna che presenta la Vergine all’Eterno Padre, opera proveniente invece dalla chiesa di Sant’Agostino degli Scalzi, anch’essa assegnata alla prima maniera del Marullo, mentre la Circoncisione, sulla parete d’ingresso a sinistra, dei primi del XVII secolo, mostra caratteri fortemente controriformati, assimilabili all’austera semplicità di impianto della pittura di Fabrizio Santafede.
Nella sala antistante lo studio del Presidente della Corte d’Appello, sulla parete destra, è ancora una tela proveniente dalla chiesa di San Giovanni Battista delle Monache raffigurante la Resurrezione di Lazzaro, opera di Oronzo Malinconico, membro della famiglia dei pittori della quale facevano parte i più noti Andrea e Nicola, opera caratterizzata da una forte consonanza con le opere di Luca Giordano databili allo stesso periodo, nella quale il pittore riesce a rendere con concentrazione estrema il momento in cui Lazzaro, fratello di Marta e Maria, richiamato dal grido di Cristo: “veni foras” emerge come uno spettro dal sepolcro.
Nella stessa sala trovano oggi collocazione i ritratti dei cardinali che furono membri della confraternita della Disciplina della Croce; questi dipinti un tempo decoravano la sala delle udienze dietro l’altare maggiore della chiesa. Sulla parete di fronte è il Ritratto del Cardinale Girolamo Casanatta, datato 1673. A sinistra è il Ritratto del Cardinale Sarnelli del XIX secolo; i due ritratti, anche se di epoche e di ambiti diversi, sono caratterizzati da una notevole resa fisignomica e da una cura raffinata dei particolari dei costumi del tempo.
Gli altri ritratti di prelati, confratelli della Disciplina della Croce, restaurati ed esposti negli ambienti della Corte d’Appello, sono il Ritratto del cardinale Astorgio Agnese, che come ricorda l’iscrizione tracciata sul dipinto fu arcivescovo di Benevento e morì nel 1312, databile alla seconda metà del XVII secolo, e il Ritratto del cardinale Rinaldo Brancaccio, morto nel 1327, come leggiamo dall’iscrizione, dello stesso autore di quello precedente, realizzati allorché i membri dell’antica congrega decisero di commemorare i confratelli più importanti in una serie di ritratti. Notevole è anche il Ritratto di papa Clemente XIV, che rielabora l’immagine del pontefice diffusa attraverso le stampe del tempo; questo papa fu noto per aver emanato il breve del 1773 col quale veniva soppressa la compagnia di Gesù, tale atto gli valse la riconoscenza del re di Napoli.
Nello studio del Presidente della Corte spicca, sulla parete frontale, la grande tela raffigurante la Cena in casa del Fariseo, un tempo sulla controfacciata della chiesa di San Giovanni Battista delle Monache.
L’opera è replica di una tela di Mattia Preti (1613-1699) conservata nella chiesa di San Domenico Maggiore, ma come denota l’alta qualità della materia pittorica, esaltata dall’intervento di restauro, lungi dall’essere una stanca ripetizione di bottega, è da ritenersi in larga parte opera autografa del grande pittore calabrese che fissa qui il momento culminante del convito in casa del fariseo Simone che non aveva reso a Gesù gli onori dovuti secondo il costume ebraico,mentre la peccatrice Maddalena bagna di lacrime i piedi di Cristo e li unge con l’olio profumato.Il dipinto, concepito come un quadro di galleria e non come dipinto di chiesa fa parte di un genere molto praticato da Preti, quello delle scene di banchetto fortemente ispirate a soggetti simili di Paolo Veronese.
Un altro notevole recupero è costituito dalla tela di Giacomo Farelli (1624-1701) raffigurante L’incredulità di San Tommaso, nello studio del Dirigente amministrativo della Corte, anch’essa caratterizzata da accenti neoveneti, resi però con quella maniera statuina e asciutta che segnò costantemente lo stile di questo raffinato pittore attivo tra Napoli e l’Abruzzo. Vengono ad aggiungersi ai dipinti due splendidi Angeli marmorei capoaltare settecenteschi, trafugati dalla chiesa della Disciplina della Croce nel 1998 e ritrovati dai Carabinieri, che completano la serie delle opere d’arte recuperate ed esposte nelle sale della Corte di Appello in Castel Capuano
Ideazione e coordinamento scientifico: Ida Maietta della Soprintendenza per i Beni Architettonici ed il Paesaggio e per il Patrimonio Storico Artistico e Demoetnoantropologico di Napoli e Provincia
Catalogazione e cartellinaggio delle opere: Clelia Abate, Daniela Castaldi
Restauri: Ambra Restauri di Gaetano Corradino e C.
Si ringraziano per la collaborazione l’arch. Maria Teresa Minervini e la dott.ssa Annalisa Porzio, della Soprintendenza per i BAP e per il PSAD.